
Ci sono repertori musicali in cui raramente ci si imbatte nella vita. Eppure, se ciò avviene, l’ascolto si imprime nella memoria non solo intellettiva ma prima ancora del cuore.
Per la vicenda che in sé custodisce, il canto armeno è tra i repertori più toccanti.
Poco è dato di sapere sui drammatici fatti che colpirono il popolo d’Armenia 110 anni fa, mentre nel continente europeo imperversava il primo conflitto mondiale. Uno stermino di sangue, di una crudeltà efferata, su una gente mite e colta, in una terra fertile e produttiva, in un contesto di generale benessere.
Il loro canto porta traccia di questa relazione strettissima con la natura, di un’anima intima e delicata; e il repertorio sacro è forte di un’aura di luce che si alimenta del dialogo vivo tra umano e divino.
La storia ha voluto che qualche decennio prima del genocidio, sul finire dell’Ottocento, molto di quel repertorio trasmesso oralmente da generazione in generazione fosse trascritto, sì da non andare perso e divenisse materiale da conservare, studiare, anche da elaborare.
Fu merito in particolare di Padre Komitas (1869-1935), compositore armeno tra i più noti, se oggi si conservano oltre 3000 melodie di antichissima tradizione, a rappresentare la sensibilità, la cultura, i temi prediletti della gente armena, in più casi anche tramite i suoi stessi arrangiamenti polifonici, che di quel canto fanno risaltare la bellezza, preservando al contempo lo spirito del testo e del melos.
Oggi, grazie alla ricerca e allo studio di chi ha progenitori armeni, qual è il caso di Justine Rapaccioli, direttrice dell’Ensemble Edesse, musicologa e fine compositrice, è dato di ascoltare esecuzioni particolarmente curate di canto armeno, viaggiando nel tempo del culto rurale di cui sono voce, dentro i loro splendidi luoghi di natura preservata.
Ingresso libero offerta consapevole.